Critica di Ivan Caccavale

Critica di Ivan Caccavale

Il repertorio artistico di Daniela Delle Fratte spicca per il valore tecnico-esecutivo e per il leitmotiv della sua produzione, il paesaggio, protagonista delle sue tele con tutto il sostrato ideologico che vi è alla base.  

La scelta di questo tipo di soggetto, fortemente sentita e voluta, tira in ballo talune disquisizioni accademiche del XIX sec. sulla distinzione tra mera registrazione della natura e idealizzazione essenziale alla grande arte, due scuole di pensiero cui fanno capo due tipi di schizzi: l’ébauche e l’ètude.

Se il primo è da ritenersi una registrazione della fantasia dell’artista, il secondo è invece una riproduzione, su mezzo artistico, della realtà. 

Didif, questo il nome d’arte del maestro romano contemporaneo, nei suoi lavori rifugge il dato contingente, imperfetto, a favore di un ideale immaginato, non relegandolo, però, al bozzetto, ma facendo di esso il motivo cardine della sua produzione. 

Andando a ritroso nella storia dell’arte, si può notare come l’elemento paesaggistico sia spesso stato bistratto o non giustamente considerato. Destinato a fare da cornice a scene storiche o a ritratti aulici, è solo nel XVII secolo che raggiunge piena autonomia e autorevolezza, quando emerge nella gerarchia dei generi pittorici, svincolandosi dalla funzione accessoria cui era relegato. 

Non si può non citare, a tal proposito, il paesaggio eroico del “Raffaello francese”, Nicolas Poussin: esso rifugge il dato naturale a favore dell’idea, si materializza sulla base di impressioni letterarie, virgiliane e ovidiane, che ritengono il paesaggio agreste una fonte di pace e serenità, mezzo di sublimazioni di traviamenti e malinconie, in cui svaniscono le contraddizioni e le tensioni della quotidianità. 

Nel Settecento si ha un’inversione di rotta. Dure e sprezzanti sono le parole dell’abate Dubos, che così sentenzia: «Il paesaggio più bello, sia pure di Tiziano, o di Carracci, non ha per noi maggiore interesse di una semplice distesa di campagna, che può essere sgradevole oppure piacevole. Dipinti del genere non contengono nulla che, per così dire, ci parli; e giacché non suscitano in noi emozione alcuna, non li troviamo particolarmente interessanti».

Nel XIX secolo, invece, la pittura paesistica conosce un notevole sviluppo, supportata dalla teoria che il paesaggio abbia valore in sé: perché opera di una mano divina (da cui dipende anche la sua bellezza, associazione che chiama in causa concezioni neoplatoniche) e perché luogo destinato ad accogliere l’uomo, nei confronti del quale non è legato da alcuna dipendenza. 

Sul solco di Poussin e della riconsiderazione ottocentesca, il repertorio di Daniela Delle Fratte mi sembra una sintesi di valori morali e paesistici. La natura raffigurata è reale e ideale al contempo: nell’orchestrazione di elementi realistici subentra l’intervento della sua immaginazione, del suo bagaglio sentimentale ed emotivo.  I suoi lavori, slegati dalla soggezione a riferimenti storici, risultano atemporali, fruibili per le loro intrinseche qualità.

Stilisticamente, “Il tempio dell’anima”, un acrilico su tela, rivela un’orchestrazione interessante ed equilibrata: la sezione sinistra dell’opera, che rappresenta una folta vegetazione, è resa tramite una pennellata talmente fluida e disinvolta, che la flora dipinta somiglia piuttosto ad onde marine; tale scioltezza di movimento, encomiabile, contrasta con la raffigurazione, nella sezione destra, delle alture, acuminate e solide. 

Degno di nota anche il cielo, così realistico nelle sue minuziose e magistrali sfumature di colore, dal bianco ovattato delle nubi al celeste chiaro. Alle tre creste del monte corrispondono tre vette a punta; alla porzione di rilievo in primo piano fa da contraltare un altro scorcio montano, la cui resa è meno nitida in quanto tiene conto della sfocatura dovuta alla distanza e all’umidità atmosferica. 

Contenutisticamente, riesco a rintracciare altri elementi di tangenza con Poussin: quella pacata e pacificata realtà proposta su tela e quell’accezione neostoica di controllo delle passioni che perturbano l’animo umano. I monti aguzzi e svettanti di Didif sono quindi il luogo dell’agognata calma, dell’equilibrio interiore, lontanissimi da quel disordine che domina invece a valle. 

Come testimoniato dal titolo, la pittrice carica il monte di una forte componente spirituale: così facendo, si   riallaccia a quel discorso ideologico ed iconologico che unisce la montagna ai concetti di salita e di superamento del sé, concetti costruiti intorno alla caratteristica più evidente dei rilievi rocciosi, la verticalità.  

La vetta, punto di congiunzione tra cielo e terra, è dunque il luogo a cui giungere o il punto da cui partire per fare esperienza del divino. 

Senza addentrarsi troppo nella Storia delle Religioni, il monte Sinai, il Tabor, il Meru degli Induisti, il monte degli Ulivi degli ebrei (detto anche monte Oliveto o monte della Sommità), il Nanda Devi, il Fujiama degli scintoisti e il Kailash, pur facendo capo a tradizioni spirituali differenti, sono tutti legati alla base dall’idea del passaggio dal fisico al metafisico. 

È particolarmente interessante soffermarsi sulle credenze connesse al Kailash (6.714 mt.), rilievo sacro ai fedeli di quattro religioni. Se i tibetani lo reputano il “gigante di cristallo”, la “reggia della divinità”, per gli induisti è la dimora di Shiva, quindi regno di Dio e delle pratiche ascetiche, fonte di trasformazione e rinascita a partire dalla distruzione. 

I buddhisti, invece, lo pongono al centro di un sacro cerchio, che rappresenta lo spazio divino dove possono recarsi per apprendere la potenza e la saggezza che li renderà liberi dalla schiavitù della sofferenza: «Andare per monti selvaggi è una via alla liberazione», affermava Milarepa, uno dei principali maestri della scuola Kagyu del Buddhismo tibetano. 

L’idea di liberazione è insita anche nella mistica carmelitana: inerpicandosi sul Monte Carmelo, San Giovanni della Croce dà vita a quel processo di affrancazione dell’anima da quelle pastoie che la separano dell’Ente Divino. La Salita su di esso costituirebbe il raggiungimento dell’alto stato di perfezione: l’unione dell’anima con Dio.

Ancora, limitatamente al Mistero delle Beatitudini, nel sermone della montagna, l’altura è un magnifico simbolo del cammino che conduce dalle tenebre alla Luce. I suoi piedi sono sulla terra e la cima si eleva fino al cielo: da qui è proclamato il Verbo della redenzione.

Proprio la verticalità pone il monte in una dimensione “altra”, nella quale è possibile la vera autorealizzazione, concretizzabile attraverso una serie di comportamenti obbligati. 

In tal modo la solitudine si sostituisce alla socialità, tipica della nostra epoca, mentre il silenzio subentra alla comunicazione, dai cui mezzi siamo oggi completamente soggiogati. Ma i silenzi imposti dai profili montuosi di Daniela Delle Fratte sono molto più eloquenti e costruttivi di qualsiasi conversazione intavolata in pianura.  Le condizioni che impongono non possono non predisporre ad una evoluzione in positivo. Su di essi si impara infatti a discernere l’indispensabile dal superfluo, si approda al controllo completo dei riflessi e, infine, si sconfigge la narcisistica ostentazione del sé. Privato di pubblico di spettatori, reali o virtuali, il singolo impara qui ad agire per il proprio bene, senza l’influenza che potrebbero esercitare aspettative esterne o la ricerca di consensi e pubbliche lodi: una vera rinascita per la propria interiorità. 

 

Qui in basso l’opera recensita dallo storico e critico d’arte Ivan Caccavale.paesaggio arte Il tempio dell'anima 100x70

Altre opere d’arte dell’artista vendute e attualmente in esposizione si può visitare la Galleria opere

paesaggio.

Precedente Pubblicazioni testate online per la mostra "Artistic Symphony" Successivo Mostra “Tempo & Spazio” presso l’Istituto Italiano in Guatemala